La memoria, a volte, ha il colore di un allenamento alle dieci del mattino, con il vento che gira dal mare e un gruppo di ragazzini che rientra negli spogliatoi sudati e felici. In mezzo, il sorriso largo di Giuseppe Teti, quello di sempre: una pacca sulla spalla, due parole dritte e gentili, e la sensazione che da lì si potesse ripartire meglio di prima. Oggi, a tre anni dalla sua scomparsa (12 settembre 2022), il calcio catanzarese si ferma un istante per ringraziare un allenatore che non ha mai cercato luci in faccia, ma che in tanti portano ancora negli occhi.
Quarantadue anni, la vita spezzata da un male feroce, e alle spalle una storia da capitano vero con il Soverato e poi da tecnico del settore giovanile dell’US Catanzaro. Undici stagioni nel vivaio giallorosso, fino a guidare Under 15, 16 e 17, e una linea retta: educare prima di vincere, formare prima di convocare. Sono parole che abbiamo letto nel comunicato del club di quel giorno—“ha lottato fino alla fine… apprezzato e ammirato per qualità umane e professionali”—ma soprattutto sono testimonianze di chi, con Giuseppe, ha corso a bordo campo o ha atteso un cenno dalla panchina per sentirsi più grande di un anno.
Un educatore prima dell’allenatore
In città lo sanno bene: Teti era uno di quelli che il calcio lo parlava basso, per farsi capire da tutti. Tecnica, certo. Metodologia, ovvio. Ma prima ancora rispetto, appartenenza, responsabilità. Non era il tipo da alzare i toni: preferiva ripetere un gesto finché il ragazzo non lo faceva suo, curando i dettagli come si fa in famiglia. Il talento, per lui, valeva senza disciplina fino all’angolo del campo; oltre, servivano testa, allenamento, tempi giusti. E quando passava tra i gruppi al Centro Tecnico Federale, bastava il suo saluto per capire che l’allenamento stava per cambiare ritmo.
Lo si ricorda per le partite, sì, ma soprattutto per quel dopo: le parole scelte, i silenzi educati, l’attenzione ai più timidi. Con i suoi “Aquilotti” era rigoroso e affettuoso, mai ruvido, capace di trasformare la frustrazione di un errore in una leva per crescere. Da capitano a formatore, ha traghettato un modo di stare in campo che ha fatto scuola: affrontare l’avversario e poi, a gara finita, stringergli la mano come si deve. Ecco perché, ancora oggi, tanti messaggi raccolti allora sui social non suonano retorici, ma necessari: è il tributo naturale a una persona perbene, come in tanti la definirono.
L’abbraccio del club e della città
Il 12 settembre 2022 la società giallorossa si strinse attorno alla famiglia di Giuseppe e al suo settore giovanile, sospendendo per due giorni ogni attività. Poi il lutto al braccio della prima squadra e il minuto di raccoglimento prima di Catanzaro–Latina: gesti che non cancellano, ma spiegano chi siamo quando il pallone si ferma. Non c’è bisogno di aggiungere altro: chi bazzica il Ceravolo conosce la differenza tra una squadra e una comunità. In una squadra si contano i punti; in una comunità si contano le persone che l’hanno resa migliore. Teti è stato una di queste.
E se oggi i Tre Colli respirano un calcio che guarda avanti—con una Primavera che torna a misurarsi ad alti livelli e un vivaio che fa parlare di sé—c’entra anche l’impronta che allenatori come lui hanno lasciato su metodi e relazioni. La cultura di un settore giovanile non nasce dai post: cresce nel tempo, grazie alle mani che ogni giorno accompagnano i ragazzi dentro e fuori dal campo. È un’eredità concreta, fatta di esercizi, ma anche di telefonate ai genitori, di una verifica scolastica commentata prima di una rifinitura, di un consiglio dato senza clamore.
L’eredità che resta (e ci impegna)
Non servono targhe in più per capire cosa ci ha lasciato. Serietà, cura, appartenenza: parole semplici, eppure impegnative. L’allenatore che pretendeva puntualità e attenzione è lo stesso che si fermava cinque minuti in più con l’ultimo della fila. Il capitano del Soverato che guidava la squadra davvero, nel bene e nel male, è lo stesso che al Catanzaro ha insegnato a tanti ragazzi che il calcio è un mestiere ma, prima ancora, un patto con se stessi.
La sua eredità ci chiama in causa, tutti: dirigenti, tecnici, famiglie, tifosi. Perché onorare Giuseppe Teti significa anche non banalizzare il lavoro di chi, ogni giorno, fa crescere i nostri figli con un pallone tra i piedi. Significa riconoscere che dietro ogni annata riuscita c’è una somma di piccoli gesti, spesso invisibili. Significa, soprattutto, non dimenticare che il vivaio non è un deposito di speranze, ma una scuola di caratteri.
Ci piace pensare che quel sorriso, oggi, continui a stare a bordo campo. Magari nell’occhio lucido di un istruttore che corregge un controllo orientato, nella pazienza di chi spiega per la terza volta un movimento senza alzare la voce, nella stretta di mano onesta tra avversari a fine partita. Tre anni sono passati in fretta, ma certe presenze non vanno via. Restano sotto pelle, come l’odore dell’erba tagliata prima di una gara importante.
Perché qui a Catanzaro il calcio è identità, e l’identità è fatta di persone. Oggi, semplicemente, diciamo: ciao mister, grazie. E torniamo al campo, dove ci hai insegnato a riconoscere la differenza tra giocare e crescere.
