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mercoledì 27 Agosto 2025

GdSport, Tato Sabadini si racconta: “Facevo il pane e sognavo. A Catanzaro con Ranieri e Palanca una bellissima compagnia”

Tarzan, Popeye, Braccio di Ferro, Bicipite, Lampadina, Freccia. Per descrivere Giuseppe “Tato” Sabadini non basta un soprannome, serve un intero almanacco di personaggi, perché la sua è stata la vita di un atleta poliedrico, un uomo d’altri tempi che ha saputo unire la forza del carpentiere, la velocità dello sprinter, la tempra del pugile e l’anima del musicista. Ma se gli si chiede quale preferisca, non ha dubbi: «Tarzan. E sa perché? Da bambino, a Sagrado, costruivamo le capanne sugli alberi, mi facevo le liane e volavo. Io ho sempre volato. Anche con la fantasia» – racconta a “La Gazzetta dello Sport“. In un lungo e affascinante racconto, la leggenda del Milan, della Nazionale e del Catanzaro apre l’album dei ricordi. Ne emerge il ritratto di un campione vero, che ha volato sulla fascia per tutta la carriera, un uomo che ha segnato cinque gol all’Inter, che ha fatto cantare Nereo Rocco e che, in una notte d’estate del 1975, si è trasformato in un eroe da saloon western per difendere il suo allenatore, Gustavo Giagnoni.

«Facevo il pane e sognavo»: le origini di un guerriero

La storia di Sabadini non nasce su un campo di calcio, ma nella polvere di un cantiere e nel profumo del pane appena sfornato. È la storia di un ragazzo bisiaco, goriziano come Fabio Capello, che ha imparato presto il significato della parola sacrificio. «Da ragazzo facevo il carpentiere. Finita la scuola, i miei amici andavano a giocare e a pescare al fiume, io a lavorare con mio padre. Diceva: ‘Porta pazienza, abbiamo bisogno’. Intrecciavo i ferri per ‘armare’ il cemento». Ma non solo. «Ho fatto anche il garzone in una panetteria. Avevo 13 anni e mi alzavo alle 4 del mattino. Dovevo dare una mano in famiglia. Facevo il pane e sognavo». Sognava il calcio, il pugilato, l’atletica leggera. Sognava di volare. Il suo primo volo è a 17 anni, nel 1966, con la maglia della Sampdoria. L’allenatore Fulvio Bernardini lo getta nella mischia in Serie A contro un Napoli di stelle come Cané, Juliano, Altafini e Sivori. L’emozione di quel giorno è ancora viva: «Un ricordo dolcissimo. Mi diedero 330 mila lire di premio partita. Mio padre lavorava in una fabbrica di mattoni e non li guadagnava in un anno. Ne mandai subito a casa 250 e con il resto mi comprai un paio di scarpe, una camicia e una giacca».

I trionfi al Milan, la delusione della Nazionale e l’episodio di Brindisi

Il grande salto arriva al Milan, la squadra per cui tifava da bambino. A San Siro diventa un pilastro, un terzino fluidificante la cui velocità era un’arma letale. Il compagno di squadra e regista illuminato Gianni Rivera lo sapeva bene e gli diceva: «Tato, tu vai, vola e la palla ti arriva». E lui andava, segnando ben 17 gol in rossonero, di cui cinque nel derby contro l’Inter. Anni di trionfi, con la vittoria di una Coppa delle Coppe (1973) e tre Coppe Italia. Le sue prestazioni gli valgono la maglia della Nazionale, ma il rapporto con l’azzurro sarà agrodolce. Solo 4 presenze e una grande delusione: «Valcareggi mi aveva fatto delle promesse che poi non ha mantenuto. Fa niente. Ero al Mondiale 1974 in Germania, ma suonavo solo la chitarra».

È in questo periodo che si colloca l’episodio più incredibile della sua carriera, quello che ne definisce il carattere. Agosto 1975, la squadra è in ritiro a Brindisi per una partita di Coppa Italia. L’allenatore è Gustavo Giagnoni. «Nel nostro albergo entrano tre brutte persone e aggrediscono l’allenatore Giagnoni, vogliono portargli via il borsello, i soldi. Io picchiano, lo colpiscono a calci e pugni. Io e Luciano Zecchini siamo a pochi metri, faccio un tuffo, mollo un pugno a uno e lo mando al tappeto. Poi anche l’altro». Il racconto, crudo e diretto, si fa cinematografico. «Zecchini sistema il terzo. Uno tenta di difendersi, lo agguanto, lo sollevo sopra la testa e lo scaravento fuori dalla porta. Come in un saloon western». Da quel giorno, per Giagnoni, Sabadini divenne «Braccio di Ferro».

L’approdo a Catanzaro e la musica nel cuore

Nel 1978, “Tato” porta la sua grinta, la sua esperienza e il suo carisma a Catanzaro, dove vivrà cinque stagioni indimenticabili. In giallorosso diventa un leader assoluto, il pilastro di una delle squadre più forti di sempre, capace di entusiasmare la Serie A. Il legame con la città e i tifosi è profondo, basato su un rispetto reciproco. A Catanzaro trova una “bellissima compagnia”, con campioni come Massimo Palanca e Claudio Ranieri. Ma è anche il luogo dove la sua passione per la musica trova terreno fertile. Se a insegnargli a suonare la chitarra era stato il suo ex compagno alla Sampdoria Rocco Fotia, è con il mitico Nereo Rocco al Milan che aveva affinato le sue doti di intrattenitore. A Catanzaro, questa passione si sposa con i gusti del suo allenatore di Brindisi: «La musica piaceva anche a Gustavo Giagnoni. Voleva sempre sentire ‘Malagueña’», ricorda. Un guerriero in campo, un artista fuori.

Oggi Giuseppe Sabadini vive proprio a Catanzaro, con sua moglie Lucia. Si gode una vita serena, tra la cucina e il mare. I suoi figli hanno ereditato la sua vena artistica: Alessandro è un musicista, Enrico un esperto di arti marziali. Lui continua a coltivare la sua passione, suonando il pianoforte e, ovviamente, la chitarra, “da solo”. Il racconto di un uomo che ha sempre volato, con la fantasia e con le gambe, lasciando un segno indelebile ovunque sia andato, ma trovando nel cuore della Calabria un posto speciale da poter, finalmente, chiamare casa.

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