Benvenuti alla sesta puntata della rubrica dedicata ai protagonisti e alle partite più significative nella storia dell’US Catanzaro. In questa occasione, rivivremo momenti chiave attraverso la testimonianza di Giuseppe “Tato” Sabadini, con la riproposizione di un’intervista del 2013.
Giuseppe Sabadini, il calciatore dai tanti soprannomi. In ordine sparso: Tato, Freccia, Tarzan, Razza Piave, Bicipite, Palestrato, Flash. Ma dopo che ha smesso di giocare, e quindi ancora oggi, dopo quasi trent’anni, se chiedete di Tato avrete subito la risposta: Sabadini. Nato a Sagrado (Gorizia) il 26 marzo 1949, parte da ala destra nella squadra del suo paese e già mostra una certa confidenza con il gol. Lo ingaggia subito la Sampdoria, esordisce in A, diventa poi terzino destro e dopo cinque anni passa al Milan. Ci rimane per sette anni: tre volte vincitore in Coppa Italia, una in Coppa delle Coppe e uno scudetto perso sul filo di lana. E dopo i rossoneri, arriva a Catanzaro: un evento quasi inaspettato che poi diventa una scelta di vita. Ci racconta come andò: “Nell’estate del 1978 vengo a Catanzaro con il Milan per giocare un’amichevole – 17 giugno, Catanzaro-Milan 0-1, rete di Bigon al 5’ del primo tempo. Il tutto, naturalmente, per la precisione – ed eravamo alloggiati a Copanello, al Villaggio Guglielmo. Una sera c’era un gruppo che suonava e io, che già anni prima avevo inciso persino un disco, di sicuro non mi sono fatto pregare. Ho preso la chitarra in mano e mi sono messo a suonare. Don Gugliemo Papaleo, persona indimenticabile, mi dice: “Tu devi venire a giocare in Calabria, perché ti vogliamo tutti bene”. Io avevo rinnovato da poco il contratto con il Milan per un altro anno, ma ebbi dei contrasti con Vitali, il direttore sportivo. A Catanzaro, con me, doveva arrivare anche Ramon Turone, che invece non voleva venire. Andai fino a Varazze per convincerlo. E ci riuscii. Potevo andare al Perugia o al Bologna, ma ero e sono innamorato di questo mare. Io ho sempre amato il mare. Ci rimisi anche dei soldi, perché al Milan prendevo quaranta milioni in premi, all’epoca, ma oggi posso dire che ne è valsa la pena.”

Alla Samp trova un grande allenatore, il dottor Fulvio Bernardini, che lo trasforma da ala in “terzino d’attacco” e gli profetizza un grande futuro presto realizzato. Mentre in maglia rossonera è guidato da un altro mito: Nereo Rocco. E a Catanzaro, chi è il “mister” che ha apprezzato di più? “Mazzone era un grande papà. Un po’ come Rocco, che però era più brontolone. Un allenatore di vecchio stampo, che ti sgridava al momento giusto ma poi te lo trovavi sempre vicino. Con Tarcisio Burgnich e Bruno Pace ho avuto un altro tipo di rapporto, più di amicizia, avendo giocato più volte insieme, sia pure in squadre diverse e perciò uno contro l’altro”.
Fra i calciatori, con chi andava più d’accordo, in maglia giallorossa? “Sono sempre andato d’accordo con tutti i miei compagni di squadra, con gli “anziani” ma soprattutto con i giovani. Ed ero una guida anche dal punto di vista tecnico e atletico, perché fisicamente ero il più prestante e veloce e quindi diventavo anche un esempio a cui ispirarsi. Tranne che nell’ultima stagione, in Serie A, più che un gruppo siamo stati una famiglia. Poi si è sfasciato tutto e i nuovi arrivi non contribuirono di certo a migliorare la situazione. E retrocedemmo”.
Da calciatore, lungo tutta la carriera, ha avuto molte gioie. Ma una la ricorda su tutte, sia pure con un pizzico di rammarico:“La soddisfazione più grande è stata quella di giocare quattro partite in Nazionale. Avrei potuto giocare di più, ma i “blocchi” c’erano anche allora. A quei tempi uno come Italo Allodi era sia il Direttore Generale della Juventus che il “capo” di Coverciano, quindi per me c’era poco spazio. Fui convocato al Mondiale del 1974, dove fummo eliminati subito al girone eliminatorio, ma non giocai per niente. Ricordo quella volta che sono andato a trovare il ct Ferruccio Valcareggi, a Firenze, quando era già molto anziano. Mi disse: “Eri bravo, hai fatto delle belle partite”. “Sì”, gli chiesi io, “ma perché non giocavo quasi mai?”. “Avevo le mani legate”, mi rispose. Vedere giocare bene, marcati da altri, in un Mondiale, calciatori che io avevo già affrontato in campo internazionale con il Milan e non avevano praticamente toccato palla, non è stato affatto piacevole”.
E la delusione più forte? “La più grossa è stata la perdita dello scudetto con il Milan a Verona nel 1973. Ricordo i tifosi che piangevano, ma quel giorno ci avevano assicurato che sarebbe stata una passeggiata. Invece non andò così. Noi, dal canto nostro, la prendemmo fin troppo alla leggera e invece ci hanno fregato”.
Oggi, di cosa si occupa? “Io ed altri stiamo facendo un accordo e un gruppo con una società in Argentina. C’è un vivaio con 400 ragazzi e speriamo di portare qualche giovane calciatore molto valido per farlo maturare in Serie B o C, se non addirittura in Serie A, come sta facendo per esempio il Verona e con ottimi risultati”.
E il Catanzaro? “Vado a vedere le partite in casa. Finora le ho viste tutte. Come organico non è male, però mancano un trequartista e si è un po’ sguarniti a sinistra. Ma ci vuole un po’ di coraggio. L’ultimo quarto d’ora in casa col Pontedera ad esempio mi è piaciuto e devo fare un elogio a Oscar Brevi per aver saputo “leggere” la partita. Criticano tanto Fioretti, ma non può fare il suo gioco da punta stando troppo indietro. Ripeto: con un po’ di coraggio avremmo vinto anche con l’Ascoli”. Osservazioni da allenatore più che da tifoso, condivisibili.
AURELIO FULCINITI