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venerdì 13 Dicembre 2024

Quel numero nove e i suoi compagni – Capitolo I

di Adriano Macchione

Era l’estate del 70

La storia inizia nell’estate 1970: Angelo Mammì, di professione calciatore, arriva a Catanzaro e al
Catanzaro, anonimo figurante, calciatore di periferia, proveniente dal Lecce.
Il morale dell’ambiente giallorosso, se non è sotto i tacchi, poco ci manca. Di certo non oltrepassa
le caviglie. Il perché è presto detto. La squadra giallorossa è reduce da un campionato di Serie B
molto deludente se non addirittura fallimentare. Si è salvata, infatti, solo all’ultimo turno dopo un
cammino cosparso da tante sofferenze. Aghi, spine, spilli e pungiglioni. Se il tifoso ci ripensava,
venivano i brividi.

Era l’estate del 70 e a questo punto è cosa utile ricordare quello che fino ad allora aveva combinato
in termini di risultati il Catanzaro, nell’ultimo campionato disputato e in tutta la sua lunga storia
precedente, giusto per poi capire meglio, nel corso del racconto, la deflagrante leggenda del nuovo
Catanzaro di Angelo Mammì che sarebbe nata da lì a poco.
Un torneo veramente sfortunato, l’ultimo disputato dalla squadra giallorossa, dipanatosi sin dal suo
avvio in maniera sciagurata. Impossibile, per il tifoso, digerirlo e dimenticarlo in fretta. Ecco il
triste e tormentoso flash black che gli umiliava la mente, il cervello e il cuore catanzarese. Bastava
andare indietro solo di dieci mesi. Come dimenticare? Alla prima giornata il calendario aveva
offerto un facile debutto casalingo contro il Piacenza allenato da Giovan Battista Fabbri,
neopromosso in Serie B. Una ghiotta occasione per partire con il piede giusto, considerato il valore
sulla carta non esaltante degli emiliani. Invece erano stati proprio gli ospiti a portarsi
inaspettatamente in vantaggio lasciando di stucco i tifosi giallorossi accorsi sugli spalti. Incassato
il gol, il Catanzaro si era riversato immediatamente in attacco, ma i ragni nel buco si erano nascosti
tutti e non se ne era cavato fuori uno che fosse uno, né con le buone, né con le cattive. La rete del
pareggio, prova e riprova, era arrivata solo al 90° ma, dopo tanti affanni, non aveva trovato
particolarmente entusiasta l’arbitro Trono di Torino che era andato a scovare con la flemma e il
puntiglio del cacciatore di farfalle un inesistente fuorigioco. Apriti cielo: era vacillata la rete di
recinzione e per poco non c’era scappata l’invasione di campo. Poi, dopo la gara (vinta dal
Piacenza per 0-1), i tifosi ormai inviperiti avevano assediato la “giacchetta nera” e i giocatori
ospiti negli spogliatoi. E si erano verificati, inevitabilmente, anche degli scontri tra tifosi e polizia.
Ne aveva fatto le spese un incolpevole Commissario, buon padre di famiglia, costretto al ricovero
in ospedale per le contusioni subite.
Il giorno dopo, i giornali del Nord, famelici di retorica a buon mercato, erano partiti in picchiata
con le loro prime pagine, come in uso a quei tempi ancora più di oggi, sganciando articoli
denigratori verso tutto il Sud. Dalle loro contumelie verbali non si era salvato nessuno.
Immediatamente, e ineluttabilmente, per il “Militare” era scattata una squalifica di ben cinque
giornate, con i giallorossi costretti a giocare in campo neutro, di qua e di là, a Bari, Brindisi,
Reggio Calabria e Crotone.
La squadra, dopo questo insolito e spericolato inizio di campionato, aveva cercato di tenersi a galla
alla meno peggio. Poi, alla 10a giornata, aveva perso di brutto per 4-0 a Mantova. Un “paliatone”.
E nell’aria tristi presagi. Da lì, invece, era iniziata una serie positiva di nove turni che, alla fine del
girone d’andata, aveva fatto ritrovare il Catanzaro al 12° posto in classifica con 18 punti in
carniere anche se con sole tre lunghezze di vantaggio sulla terzultima posizione (buona per…
retrocedere) occupata a quota 15 da ben tre squadre. Alla 1a giornata di ritorno, però, la serie
positiva si era interrotta sul campo del solito fatidico Piacenza. E poi, alla 3a giornata, nella partita
interna con il Catania, si erano verificati di nuovo degli incidenti ed erano arrivate altre due
giornate di squalifica. Una specie di abbonamento. I risultati, così, erano diventati un pochino più
scadenti ed era andata a finire che il Catanzaro all’ultima giornata si era ritrovato al terzultimo
posto e non ancora in salvo. Per fortuna, in quest’ultima giornata della paura, il calendario aveva
presentato lo scontro al “Militare” contro la Reggiana dell’ex Gianni Fanello, squadra a pari punti
in classifica ma con una peggiore differenza reti. Una specie di spareggio. Dove ai boccheggianti
giallorossi, bontà degli dei della palla, sarebbe bastato un pareggio per evitare la retrocessione.
Dopo una partita giocata pavidamente e nello stesso tempo intelligentemente per racimolare un
inestimabile 0-0, con l’arietta sorniona del passante che ruba una mela al fruttivendolo,
l’obbiettivo minimo era stato infine colto. E così, dopo aver acceso un cero votivo alla suddetta
differenza reti che aveva evitato la caduta negli inferi, il Catanzaro per il rotto della cuffia si era
salvato e in Serie C era finita irrimediabilmente la stessa Reggiana. Ma che paura, quel giorno,
ragazzi…
Questo campionato 1969-70, osservava l’amaro tifoso in quell’estate del 1970, alla resa dei conti
era risultato il peggiore disputato dalla squadra giallorossa dopo il suo ritorno nella serie cadetta,
benedetto e glorificato al termine del vittorioso campionato di Serie C 1958-59, prima stagione con
l’avv. Nicola Ceravolo presidente. E, con fare tra lo storico e il masochistico, con l’animo tra il
deluso e lo sbigottito per quella situazione, il tifoso s’ingarbugliava stoicamente in qualche
acrobatico ma istruttivo saltello all’indietro sulle tracce di vivide reminiscenze.
E ricordava che dal 1959-60 in poi, per un lungo periodo, erano state scritte pagine molto belle.
Sfogliarle era sempre un piacere. E prendeva magicamente forma il ricordo.
Quel suo Catanzaro che gli volava nella mente e gli planava nel cuore, da quel 1959-60, aveva
militato con molta dignità in Serie B fino alla stagione 1964-65, offendo belle prestazioni,
valorizzando giovani di talento o rivitalizzando giocatori dati già per finiti. Tra i giovani, ecco il
già citato Gianni Fanello, un centravanti scovato a Pizzo che in giallorosso nei campionati 1958-59
in Serie C e 1959-60 in Serie B aveva segnato una marea di reti (15 a stagione) ed ecco i
“portierini” Mario Da Pozzo (nel 1959-60) e Claudio Bandoni (nel 1960-61). E poi i terzini Stelio
Nardin e Romano Micelli, che erano finiti, anche se con una sola presenza, addirittura in
Nazionale, il secondo nel 1965-66 (con il Foggia) e il primo nel 1966-67 (con il Napoli). Bandoni,
Nardin e Micelli si erano ritrovati insieme nel Napoli in Serie A nella stessa stagione 1966-67, un
Napoli che lottava per lo scudetto e per i tifosi catanzaresi sentire snocciolata la formazione
partenopea che iniziava con tre nomi ex giallorossi era diventata un’insolita piccola grande
soddisfazione, era un po’ come stare in Serie A, era un po’ come dire che nella lotta per lo scudetto
c’erano anche loro. E c’era stato anche chi, in quei giochi di fantasia, alzando gli occhi verso
Siano, aveva visto insolite falde e insoliti pendii, e del fumo ergersi al cielo: era il Vesuvio.
Tra i meno giovani, in quel Catanzaro dei miracoli dei primi anni di Serie B, ecco l’attaccante
Gennaro Rambone su tutti, due volte acquistato per un piatto di quattro lenticchie contate e due
volte baciato dal Re Mida del pallone avv. Nicola Ceravolo e rivenduto a peso d’oro. E poi il
“rosso” Cesare Maccacaro, Osvaldo Bagnoli e Pippo Marchioro.
Una piccola favola di paese, quel piccolo Catanzaro, che alla domenica, tutte le domeniche
diventava “grande grande”.
Poi, nel 1965-66 ecco il botto. Qui il ricordo del tifoso si faceva più vivo. E il passato, ogni volta,
ritornava ad essere un pulsante presente. Arriva come allenatore il granitico bolognese Dino
Ballacci e un centravanti di nome Gianni Bui. In porta vola Provasi, terzini sono Marini e
Lorenzini, la mediana presenta Maccacaro, Tonani e Sardei, sulle ali giostrano Vanini ed Orlandi,
a mezzali Marchioro e Gasparini. E al centro dell’attacco il classico Bui che segna con una
puntualità da orologio del Canton Ticino.
La squadra lotta per la Serie A e nello stesso tempo, in miracolosa simbiosi, va a cento all’ora in
Coppa Italia, eliminando una dopo l’altra il Messina, il Napoli sconfitto addirittura al “San Paolo”,
la Lazio sconfitta sul neutro del “San Vito” (per una squalifica del campo di Catanzaro) e il
Torino, sconfitto al “Militare” ai rigori con la riserva Tribuzio impeccabile cecchino dagli undici
metri che realizza ben tre penalty (al tempo nella lotteria dei rigori un giocatore poteva battere dal
dischetto più volte). Che Catanzaro, gente!
Poi, allontanatasi la possibilità del gran salto nella massima serie, rimane invece solo la Coppa.
Dove il Catanzaro continua ad edificare mirabilie indimenticabili. Addirittura in semifinale vince a
Torino contro la Juventus per 2-1 con una doppietta di un sempre più grande Tribuzio e va in
finale. All’ultimo ostacolo, la squadra giallorossa è fatta incespicare di brutto. Si gioca a Roma
contro la Fiorentina, la partita è inchiodata sull’1-1 e, quando mancano ormai solo pochi minuti
alla fine del secondo tempo supplementare, pare avviarsi ai rigori. Ma ecco che, a ciel sereno,
all’improvviso ci scappa un dubbio e magnanimo rigore per i viola. Tiro e gol, e la Coppa non
proprio meritatamente va alla Fiorentina.
Stessa musica nella stagione seguente, per il fine uditore catanzarese, con il siciliano Carmelo Di
Bella allenatore. Al fianco di Gianni Bui arrivano il giovane centravanti Sandro Vitali e l’ala
destra Sergio Rossetti. E’ un tridente che segna senza peccati di avarizia. Solo la mafia, in
Calabria, spara più a raffica. Il campionato è dominato dal tandem Sampdoria-Varese, che ben
presto stacca tutte le altre concorrenti. Il Catanzaro, con il Potenza e il Catania del nostro fresco ex
Dino Ballacci, è tra le terze forze. Ma è una soddisfazione effimera. La Lega proprio in questa
stagione ha deciso di ridurre le promozioni in Serie A dalle solite tre ad appena due per portare il
numero delle partecipanti al massimo campionato da 18 a 16 squadre. Così, quello che sarebbe
potuto diventare un campionato trionfale, diventa per il Catanzaro solo una bella passerella, perché
il terzo posto finale non porta da nessuna parte e nel frattempo le prime due piazze diventano
anzitempo appannaggio di Sampdoria e Varese.
Quel terzo posto, però, diventa purtroppo una specie di “canto del cigno”. Parte Bui, e anche Vitali
e Rossetti. Come allenatore arriva Giuseppe Lupi, “nuovo” della Serie B. Il nuovo tandem di punta
è costituito da Sergio Pellizzaro ala destra e Mario Zimolo centravanti. La squadra lotta per non
retrocedere e si soffre come mai era capitato nei campionati precedenti, nonostante le molte reti di
Pellizzaro che, calzettoni abbassati alla caviglia alla Sivori, pare però predicare al vento. Zimolo,
invece, si rivela un mezzo fallimento. Fine dei tempi belli, fine del sogno.
Identica solfa, infatti, nella stagione seguente 1968-69. Era restato Lupi ma era andato via
Pellizzaro e non c’era stato nessun nuovo bomber capace di continuare le precedenti gesta di Bui,
Vitali e dello stesso Pellizzaro. Il centravanti Zimolo si era confermato un bluff senza precedenti,
un pezzo di legno, massiccio e senza guizzi. Era come se con la maglia numero nove giocasse una
quercia. A novembre gli si era affiancato Giovan Battista Benvenuto, stessa stazza, addirittura
commovente per la voglia di fare ma quasi goffo e con il viso incorniciato da due basettoni
campagnoli che lo tenevano lontano dall’immagine del bomber, angelico vendicatore, da sognare
la notte. M’intristiva – ero ancora un bambino – quella sua smodata passione, quel suo
attaccamento alla maglia e i fischi impietosi del pubblico. Segnò 5 reti, tolse qualche castagna dal
fuoco e quando segnava veniva a pugni chiusi sotto la tribuna. Ma, invece di trovare applausi,
trovava ancora altri fischi. Sì, mi dispiaceva molto, di quel giocatore. Io, tra l’altro, gli sono molto
grato. A lui devo la mia prima apparizione in tivù. Era una di quelle cinque rare volte che il
truculento Giobatta era andato a segno. Il lunedì sera, nel corso del “Telegiornale Sport”, che
andava in onda alle sette di sera e che durava massimo un quarto d’ora, mandavano in onda i
filmati delle partite di Serie B. Era solo quello l’appuntamento televisivo con il Catanzaro,
prendere o lasciare, poi il niente, altro che le televisioni di oggi. Bene, in quel filmatino, dopo il
gol si vide Benvenuto correre al solito a pugni chiusi urlando come uno spiritato verso il pubblico,
nella fattispecie quello sparuto che albergava dove oggi è la Tribuna Est, al tempo scoperta. Le
scalee erano semivuote, solo un rado gruppetto di gente lassù che stava vicina e raccolta in sé
stessa, forse per sentire meno freddo o per scambiarsi le battute domenicali. Al Benvenuto
inneggiante, nonostante il gol, continuavano ad arrivare insulti. Solo un tifoso scese saltellando i
gradoni a due per volte per raccogliere quella gioia. Lo ricordo con il cappotto a quadroni scozzesi,
il cappellino con i “copriorecchi” di lana, le scarpe nuove perché, pur andando alla partita, si
andava comunque in città. Era appena un bambino. Quel piccolo tifoso si vide nel filmato in tivù
nella scena del “dopo gol”. Un tifoso che si vide piccolo quanto una cacchina di mosca. Bene,
quella cacchina di mosca ero io.
Ma torniamo al nostro racconto: la squadra, con in attacco quei due “enricototi”, era andata alla
deriva. Ed era scoppiata così una grande contestazione nei confronti di Lupi che, durante il girone
di ritorno, era stato ineluttabilmente esonerato. Al suo posto era stato richiamato il mai dimenticato
Dino Ballacci, di già un’icona. Il tecnico, però, era vittima di una lunga squalifica. In panchina,
così, fino al termine della stagione, era andato il buon Umberto Sacco, allenatore in seconda e
della “De Martino” ed ex grande giocatore giallorosso sul finire degli Anni 30, che si era preso
anche lui, vittima innocente e disarmata, il suo bel cesto di belle ma immeritate contumelie.
Sudando qualche camicia in più delle proverbiali sette, il Catanzaro, infine, era riuscito nell’ardua
impresa di salvarsi.
Confermato Ballacci anche per la stagione seguente 1969-70, siamo all’attualità della nostra
narrazione. Il presidente avv. Nicola Ceravolo aveva scambiato con il Catania il centravanti Mario
Zimolo con l’ala Giorgio Girol, schiappa con schiappa, una quercia in cambio di uno stecco di
platano, con lo stesso animo di chi gioca la schedina del Totocalcio, chissà, con una “botta di
culo”, non si mai. Come nuovo centravanti era stato acquistato Mario Musiello, proveniente dal
Como, “furlan”, faccia e fisico d’alpino. Girol era infaustamente reduce da zero gol segnati,
Musiello nel Como ne aveva fatti due, la gente non sapeva se piangere o se ridere. A novembre era
arrivato un altro attaccante, ala destra tutto finte e dribbling, una specie di Gorge Best in miniatura,
un soldo di cacio, 65 chiletti su 1,70 d’altezza, romano ma pesarese di nascita e che l’asso inglese
pareva scimmiottare, oltre che nelle serpentine sul campo, anche nella corvina chioma fluente e
nell’acconciatura. Il suo nome? Maurizio Gori. Aveva giocato una partita in A due stagioni prima,
poi 16 in B e in quella stessa stagione 1969-70 altre 7 in C prima di passare in giallorosso. E i gol?
In tutto uno. E a Catanzaro? Anche da noi aveva segnato una sola rete ma almeno aveva rianimato
il gioco d’attacco con fughe, frizzi, lazzi, serpentine, dribbling. Ma, a prescindere dal tandem di
punta e dai gol realizzati, le cose per il Catanzaro nella nuova stagione erano andate male sin
dall’inizio. Era inciampato già al primo gradino della lunga scala del campionato. Come già
narrato, era arrivata subito la lunga squalifica del campo, poi la seconda, nel girone di ritorno il
passo era stato più del gambero che del canguro e la squinternata squadra si era salvata ancora una
volta per il rotto della cuffia, all’ultima giornata, battendo la Reggiana e grazie alla differenza reti,
santa protettrice del tempo. Questa la formazione tipo: Maschi; Marini Bartoletti; Busatta
Benedetto Massari; Gori Bertuccioli Musiello Franzon Aristei più il valido Banelli. Utilizzati,
inoltre, Rigato e Girol, il secondo portiere Pozzani e in pochissime occasioni le riserve Silipo,
Barbuto e Della Pietra e il redivivo Braca, di nuovo in campo dopo un grave incidente subito nella
stagione precedente. Tutti bravi ragazzi, per carità, ma meno male che Musiello almeno 8 reti le
aveva messe nel sacco…
Il tifoso, non contento del breve viaggio a ritroso negli ultimi anni e delle deludenti risultanze
numeriche della stagione appena scandagliata, sempre più incuriosito dalla storia e sempre più
masochista, si affogava in altri piroettanti e procellosi oceani di flash black all’indietro, trascinato
dall’onda del ricordo. E scopriva, così, che il campionato 1969-70 era risultato non solo il peggiore
in assoluto dal ritorno in Serie B ma anche, risultati alla mano, tra i peggiori di tutti i tempi della
storia giallorossa.
Solo in due occasioni e in condizioni storiche completamente diverse si era fatto peggio. E il
ricordo andava quasi alla notte dei tempi, riallacciandosi agli albori della società.
Dopo tre stagioni nei campionati regionali, nel 1930-31 la squadra era stata ammessa alla Prima
Divisione del tempo che aveva lasciato alla fine della stagione 1932-33 quando era stata ammessa
alla “prima” Serie B della sua storia. In cadetteria, però, la Catanzarese (così ancora si chiamava)
aveva giocato per due soli tornei, nel 1933-34 e 1934-35. Alla fine di quest’ultima stagione, per
una ristrutturazione dei campionati (e quindi non per una retrocessione decretata dal campo) la
squadra giallorossa si era ritrovata in Serie C, dove però era restata per la sola annata 1935-36, alla
fine della quale aveva vinto il campionato conquistando di nuovo la Serie B. Era stata, quella, la
prima promozione ottenuta sul campo.
Nel 1936-37, però, erano arrivate dolenti note. E siamo al primo momento buio dei due accennati.
La Catanzarese, travolta da una grave crisi economica, era retrocessa immediatamente e senza
appello in Serie C. La funesta crisi subito dopo non aveva permesso addirittura l’iscrizione al
campionato, relegando la società nei campionati regionali per tre stagioni fino all’interruzione
dell’attività in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Alla ripresa post bellica il Catanzaro (non più Catanzarese) aveva partecipato al campionato
regionale nel 1944-45 e di seguito, ammesso in entrambe le occasioni d’ufficio, alla Serie C nel
1945-46 e alla Serie B nel 1946-47. Alla fine di questa stagione, e siamo al secondo momento
buio, per quella squadra povera e ancora in via d’organizzazione, figlia della guerra e nipote di
Mussolini, era arrivata una quasi ineluttabile retrocessione di nuovo in Serie C (che era rimasta la
seconda ed l’ultima del club fino agli Anni 70 dei nostri racconti). In Serie C, a parte una caduta
in Quarta Serie nel 1952-53 (dovuta però non ad una retrocessione ma ad una nuova
ristrutturazione dei campionati), il Catanzaro, al grido di “poveri ma belli”, era rimasto fino al già
citato torneo 1958-59, quello del ritorno definitivo in cadetteria. Le storie seguenti, poi, le abbiamo
già dette.
Ecco dunque delineato il quadro del Catanzaro fino all’estate 1970. Un piccolo miracolo di
provincia, lindo e pulito, ma che negli ultimi anni, aveva perso l’antico splendore, inabissandosi
nei bassifondi delle varie classifiche, dalle quali non era più riuscito ad emergere. Anzi, il tempo,
pareva volgere a burrasche inevitabili e ingloriosi the end. Ma, a questo punto, proprio quando la
bella favola sembrava finita, proprio quando si congetturavano i peggiori epiloghi, ecco il nostro
Angelo Mammì: è già, con lui fu davvero l’inizio di un’altra storia. Un’altra storia, per Catanzaro e
gli sportivi catanzaresi. Un’altra storia, quella che andiamo raccontare. Una storia di trentasette
anni fa, mica ieri. Ma una storia mai finita. Che ancora oggi si sviluppa nella mente e nel cuore di
tanti. Perché è ancora storia di oggi. Basta imperfetti, passati e trapassati prossimi e remoti. Meglio
usare il presente storico, il tempo perfetto, di chi vuole ancora continuare a sognare. E chi c’era,
galleggi nel ricordo. E chi non c’era, provi a chiudere gli occhi. Magari potrà vivere giorni da lui
non vissuti o rivivere o rivedere giorni che furono di suo padre…

Il presidente avv. Nicola Ceravolo

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